mercoledì 20 giugno 2007

La nuova Libia e le prospettive energetiche per l'Italia (l'Occidentale)

Il settimanale The Economist ha riportato nella sua edizione del 2 giugno la notizia della firma di un contratto tra la British Petroleum (BP) e la Libia per la ricerca di gas naturale in Libia per un valore di 900 milioni di dollari. Secondo Market Watch, la compagnia del Regno Unito sarebbe disposta a fare investimenti per 26 miliardi di dollari nel paese nordafricano. L’amministratore delegato di BP, Tony Hayward, intervistato dal Financial Times, ha affermato che l’accordo è “il più grande impegno sottoscritto dall’azienda nel campo dell’esplorazione [d’idrocarburi]”. L’accordo ha coinciso con la visita a Tripoli del Primo Ministro Blair che si è felicitato dell’accordo affermando che “le relazioni con la Libia si stanno rafforzando ad ogni nuovo passo”. Il Financial Times prosegue affermando che l’accordo è ancora più rilevante se messo in relazione con i problemi emersi recentemente con Mosca per il prolungamento di una concessione di BP nel giacimento di Kovykta in Russia.
Il crescente interesse occidentale per la Libia.La notizia dell’accordo dimostra il crescente interesse che le grandi compagnie internazionali hanno riservato alla Libia dal 2003 in poi, dopo la sua uscita dal lungo periodo d’isolamento internazionale. Il sostegno al terrorismo internazionale a partire dagli anni ’70, il tentativo di dotarsi di armi di distruzione di massa e il comportamento spesso arbitrario del regime del Colonnello Gheddafi hanno segnato negativamente la storia della Libia degli ultimi decenni.
L’attentato al volo Pan-Am 103 esploso sopra Lockerbie, in Scozia, nel 1986, con la morte di 271 passeggeri, può essere considerato il punto più basso nei rapporti con la comunità internazionale e in particolare con Stati Uniti e il Regno Unito. Nel 2003, tuttavia, Tripoli ha operato un cambio di rotta, rinunciando unilateralmente all’acquisizione di armi di distruzione di massa e collaborando attivamente nella campagna contro il terrorismo, e ciò ha segnato il punto di svolta che ha favorito la ripresa dei rapporti diplomatici interrotti anni prima.
“The scramble for Libya”.Il contratto d’esplorazione siglato da BP cerca di recuperare il ritardo accumulato rispetto ad altri concorrenti come ExxonMobil, RoyalDutchShell e soprattutto da ENI, presente in Libia sin dal 1959. Attualmente la produzione di greggio giornaliera è, a causa della riduzione dei capitali stranieri dovuti alle sanzioni economiche ora rimosse, meno della metà di quella del 1971 e cioè pari a 1,6 milioni di barili. Gheddafi vuole riportare la produzione a 3 milioni di barili al giorno entro il 2012, e questo, secondo il Dipartimento dell’Energia americano, riporterebbe la Libia tra i primi 10 produttori di greggio al mondo davanti a Venezuela, Iraq e Nigeria.
Secondo l’Oil and Gas Journal, la Libia è al quattordicesimo posto al mondo per le riserve accertate di gas naturale e il contratto siglato da BP ha come obiettivo di scoprire nuovi ricchi giacimenti, come nelle zone desertiche dell’entroterra e nel Golfo del Sirte (che, secondo una stima, trattiene il 22% delle riserve di gas naturale dell’intero continente africano).
Queste nuove opportunità e la sorprendente trasparenza delle procedure nelle aste pubbliche per l’assegnazione delle concessioni, come riportato da BusinessWeek, hanno scatenato quella che potrebbe definirsi una “scramble for Libya”, una corsa per la Libia da parte di molti paesi interessati a fornire le infrastrutture necessarie per lo sviluppo non solo della produzione di idrocarburi ma dell’intera economia libica, paese di circa sei milioni di persone.
Molte aziende per poter accedere alle riserve libiche hanno accettato condizioni piuttosto restrittive sui loro possibili profitti. La Chinese Petroleum Company per esempio, si è accontentata del 7,8% come ritorno sulla produzione dei propri giacimenti contro la media oscillante tra il 20% e il 30% degli anni ’90. L’interesse è evidentemente molto alto.
L’apertura alla globalizzazione è fondamentale per il regime di Tripoli.Sembra tuttavia che tra le ragioni della svolta impressa da Gheddafi nel 2003 vi sia anche l’interesse a non perdere le ampie opportunità offerte dalla globalizzazione, soprattutto per un paese che ha una disoccupazione che secondo un rapporto della Banca Mondiale è attorno al 25% ma che altre stime ritengono sia del 35%.
Intervistato dal Financial Times, Mahmoud Gebril, capo del Consiglio di Pianificazione Nazionale, ha affermato che la Libia “si trova in una fase di lettura della globalizzazione” e che la “trasformazione della società consisterà nel creare un nuovo modello culturale e non semplicemente nel costruire qualche industria”. Aggiunge Gabril che “in questa nuova visione per il futuro, i media ricopriranno un ruolo chiave per la libera partecipazione della gente”.
Si tratta allora di aprire la società libica e la sua economia, in particolare il settore privato che aveva chiuso i battenti negli anni ’70 e ’80 a causa delle politiche del regime, e fare tesoro di esempi di success come quello dell’Irlanda o di Singapore. Gli investitori stranieri possono ora portare capitali in Libia più agevolmente e ci sono maggiori facilitazioni per le joint ventures nel campo bancario come riporta The Economist.
L’Italia in Libia: i dati e gli scenari possibili.L’Italia in Libia ha il grande vantaggio di non essersene mai andata. Essa è il primo esportatore nel paese nordafricano con una quota pari al 18%, con una presenza di circa 60 aziende e grandi società come ENI e FIAT che hanno investito somme rilevanti.
I settori che maggiormente interessano le imprese italiane sono quelli dell’agricoltura, della pesca delle telecomunicazioni e naturalmente dell’energia. La Libia è il settimo più grande fornitore di fonti energetiche primarie della penisola, anche grazie alla realizzazione del gasdotto sottomarino Trans-Mediterraneo. Per mantenere questa posizione ENI ha fatto ricorso anche in investimenti “sociali” come i 150 milioni di dollari destinati alla costruzione di ospedali, scuole e opere di ricerca archeologiche. Inoltre, 150 ingegneri libici verranno formati e integrati nelle strutture aziendali.
In una recente visita Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’ENI, ha dichiarato che la società italiana “ha intenzione di continuare a crescere in Libia specialmente nel settore del gas naturale”. Una tale situazione dovrebbe permettere al governo italiano di influire sul regime di Tripoli anche se, con la fine delle sanzioni e l’arrivo di nuovi attori internazionali, l’Italia rischia nel medio lungo periodo di veder diluita la propria influenza. La questione del controllo dell’immigrazione clandestina che parte dalle coste libiche verso il nostro territorio resta un nodo cruciale nelle relazioni tra i due paesi.
La Libia rimane un paese “non libero”.La presenza di figure come il figlio del rais libico, Seif, sembrano avere portato una certa impronta riformista nelle alte sfere del regime. Seif ha tuttavia negato di avere aspirazioni politiche e di non considerare come “democratica” una successione ereditaria del potere.
Nonostante questa visione ottimistica, molto, forse troppo resta da fare nel campo delle libertà civili e politiche. Secondo il rapporto 2004 redatto dalla Segreteria di Stato americana, in Libia i dati circa la garanzia della libertà di parola, di associazione e di religione sono sconfortanti. Il regime di Tripoli può arrestare persone e mantenerle in stato di arresto senza formulare accuse a loro carico per un periodo indefinito di tempo. Esempio della mancanza di un ordinamento giudiziario indipendente e ispirato alla correttezza delle procedure è il caso delle sei infermiere bulgare e del medico palestinese condannati a morte per avere, secondo gli accusatori, infettato volontariamente 426 bambini con il virus dell’HIV.
Nella classifica stilata da Freedom House nel 2006, la Libia ottiene il voto più basso per diritti politici e libertà civili. La Libia pertanto rientra nel nutrito gruppo dei paesi “non liberi”. A.M. Zlitni, alto funzionario della pianificazione economica libica, in un’intervista ad Andrew Solomon del New Yorker ha tuttavia affermato che “in Libia la democrazia è una parola che significa che la leadership prende in considerazione, discute e, a volte, accetta le idee degli altri”. Questo spiega perché Oliver Miles, ex ambasciatore britannico a Tripoli, parlando al Financial Times, ha affermato che “la Libia si trova ad affrontare gli stessi problemi degli altri paesi arabi ma che in Libia non è ancora chiaro se il colonnello Gheddafi sia a favore o contro le riforme”. La sfinge di Tripoli, dopo 38 anni al potere, non ha ancora dato chiari segnali di voler aprire al cambiamento e per l’Occidente resta ancora un enigma.