mercoledì 20 giugno 2007

La nuova Libia e le prospettive energetiche per l'Italia (l'Occidentale)

Il settimanale The Economist ha riportato nella sua edizione del 2 giugno la notizia della firma di un contratto tra la British Petroleum (BP) e la Libia per la ricerca di gas naturale in Libia per un valore di 900 milioni di dollari. Secondo Market Watch, la compagnia del Regno Unito sarebbe disposta a fare investimenti per 26 miliardi di dollari nel paese nordafricano. L’amministratore delegato di BP, Tony Hayward, intervistato dal Financial Times, ha affermato che l’accordo è “il più grande impegno sottoscritto dall’azienda nel campo dell’esplorazione [d’idrocarburi]”. L’accordo ha coinciso con la visita a Tripoli del Primo Ministro Blair che si è felicitato dell’accordo affermando che “le relazioni con la Libia si stanno rafforzando ad ogni nuovo passo”. Il Financial Times prosegue affermando che l’accordo è ancora più rilevante se messo in relazione con i problemi emersi recentemente con Mosca per il prolungamento di una concessione di BP nel giacimento di Kovykta in Russia.
Il crescente interesse occidentale per la Libia.La notizia dell’accordo dimostra il crescente interesse che le grandi compagnie internazionali hanno riservato alla Libia dal 2003 in poi, dopo la sua uscita dal lungo periodo d’isolamento internazionale. Il sostegno al terrorismo internazionale a partire dagli anni ’70, il tentativo di dotarsi di armi di distruzione di massa e il comportamento spesso arbitrario del regime del Colonnello Gheddafi hanno segnato negativamente la storia della Libia degli ultimi decenni.
L’attentato al volo Pan-Am 103 esploso sopra Lockerbie, in Scozia, nel 1986, con la morte di 271 passeggeri, può essere considerato il punto più basso nei rapporti con la comunità internazionale e in particolare con Stati Uniti e il Regno Unito. Nel 2003, tuttavia, Tripoli ha operato un cambio di rotta, rinunciando unilateralmente all’acquisizione di armi di distruzione di massa e collaborando attivamente nella campagna contro il terrorismo, e ciò ha segnato il punto di svolta che ha favorito la ripresa dei rapporti diplomatici interrotti anni prima.
“The scramble for Libya”.Il contratto d’esplorazione siglato da BP cerca di recuperare il ritardo accumulato rispetto ad altri concorrenti come ExxonMobil, RoyalDutchShell e soprattutto da ENI, presente in Libia sin dal 1959. Attualmente la produzione di greggio giornaliera è, a causa della riduzione dei capitali stranieri dovuti alle sanzioni economiche ora rimosse, meno della metà di quella del 1971 e cioè pari a 1,6 milioni di barili. Gheddafi vuole riportare la produzione a 3 milioni di barili al giorno entro il 2012, e questo, secondo il Dipartimento dell’Energia americano, riporterebbe la Libia tra i primi 10 produttori di greggio al mondo davanti a Venezuela, Iraq e Nigeria.
Secondo l’Oil and Gas Journal, la Libia è al quattordicesimo posto al mondo per le riserve accertate di gas naturale e il contratto siglato da BP ha come obiettivo di scoprire nuovi ricchi giacimenti, come nelle zone desertiche dell’entroterra e nel Golfo del Sirte (che, secondo una stima, trattiene il 22% delle riserve di gas naturale dell’intero continente africano).
Queste nuove opportunità e la sorprendente trasparenza delle procedure nelle aste pubbliche per l’assegnazione delle concessioni, come riportato da BusinessWeek, hanno scatenato quella che potrebbe definirsi una “scramble for Libya”, una corsa per la Libia da parte di molti paesi interessati a fornire le infrastrutture necessarie per lo sviluppo non solo della produzione di idrocarburi ma dell’intera economia libica, paese di circa sei milioni di persone.
Molte aziende per poter accedere alle riserve libiche hanno accettato condizioni piuttosto restrittive sui loro possibili profitti. La Chinese Petroleum Company per esempio, si è accontentata del 7,8% come ritorno sulla produzione dei propri giacimenti contro la media oscillante tra il 20% e il 30% degli anni ’90. L’interesse è evidentemente molto alto.
L’apertura alla globalizzazione è fondamentale per il regime di Tripoli.Sembra tuttavia che tra le ragioni della svolta impressa da Gheddafi nel 2003 vi sia anche l’interesse a non perdere le ampie opportunità offerte dalla globalizzazione, soprattutto per un paese che ha una disoccupazione che secondo un rapporto della Banca Mondiale è attorno al 25% ma che altre stime ritengono sia del 35%.
Intervistato dal Financial Times, Mahmoud Gebril, capo del Consiglio di Pianificazione Nazionale, ha affermato che la Libia “si trova in una fase di lettura della globalizzazione” e che la “trasformazione della società consisterà nel creare un nuovo modello culturale e non semplicemente nel costruire qualche industria”. Aggiunge Gabril che “in questa nuova visione per il futuro, i media ricopriranno un ruolo chiave per la libera partecipazione della gente”.
Si tratta allora di aprire la società libica e la sua economia, in particolare il settore privato che aveva chiuso i battenti negli anni ’70 e ’80 a causa delle politiche del regime, e fare tesoro di esempi di success come quello dell’Irlanda o di Singapore. Gli investitori stranieri possono ora portare capitali in Libia più agevolmente e ci sono maggiori facilitazioni per le joint ventures nel campo bancario come riporta The Economist.
L’Italia in Libia: i dati e gli scenari possibili.L’Italia in Libia ha il grande vantaggio di non essersene mai andata. Essa è il primo esportatore nel paese nordafricano con una quota pari al 18%, con una presenza di circa 60 aziende e grandi società come ENI e FIAT che hanno investito somme rilevanti.
I settori che maggiormente interessano le imprese italiane sono quelli dell’agricoltura, della pesca delle telecomunicazioni e naturalmente dell’energia. La Libia è il settimo più grande fornitore di fonti energetiche primarie della penisola, anche grazie alla realizzazione del gasdotto sottomarino Trans-Mediterraneo. Per mantenere questa posizione ENI ha fatto ricorso anche in investimenti “sociali” come i 150 milioni di dollari destinati alla costruzione di ospedali, scuole e opere di ricerca archeologiche. Inoltre, 150 ingegneri libici verranno formati e integrati nelle strutture aziendali.
In una recente visita Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’ENI, ha dichiarato che la società italiana “ha intenzione di continuare a crescere in Libia specialmente nel settore del gas naturale”. Una tale situazione dovrebbe permettere al governo italiano di influire sul regime di Tripoli anche se, con la fine delle sanzioni e l’arrivo di nuovi attori internazionali, l’Italia rischia nel medio lungo periodo di veder diluita la propria influenza. La questione del controllo dell’immigrazione clandestina che parte dalle coste libiche verso il nostro territorio resta un nodo cruciale nelle relazioni tra i due paesi.
La Libia rimane un paese “non libero”.La presenza di figure come il figlio del rais libico, Seif, sembrano avere portato una certa impronta riformista nelle alte sfere del regime. Seif ha tuttavia negato di avere aspirazioni politiche e di non considerare come “democratica” una successione ereditaria del potere.
Nonostante questa visione ottimistica, molto, forse troppo resta da fare nel campo delle libertà civili e politiche. Secondo il rapporto 2004 redatto dalla Segreteria di Stato americana, in Libia i dati circa la garanzia della libertà di parola, di associazione e di religione sono sconfortanti. Il regime di Tripoli può arrestare persone e mantenerle in stato di arresto senza formulare accuse a loro carico per un periodo indefinito di tempo. Esempio della mancanza di un ordinamento giudiziario indipendente e ispirato alla correttezza delle procedure è il caso delle sei infermiere bulgare e del medico palestinese condannati a morte per avere, secondo gli accusatori, infettato volontariamente 426 bambini con il virus dell’HIV.
Nella classifica stilata da Freedom House nel 2006, la Libia ottiene il voto più basso per diritti politici e libertà civili. La Libia pertanto rientra nel nutrito gruppo dei paesi “non liberi”. A.M. Zlitni, alto funzionario della pianificazione economica libica, in un’intervista ad Andrew Solomon del New Yorker ha tuttavia affermato che “in Libia la democrazia è una parola che significa che la leadership prende in considerazione, discute e, a volte, accetta le idee degli altri”. Questo spiega perché Oliver Miles, ex ambasciatore britannico a Tripoli, parlando al Financial Times, ha affermato che “la Libia si trova ad affrontare gli stessi problemi degli altri paesi arabi ma che in Libia non è ancora chiaro se il colonnello Gheddafi sia a favore o contro le riforme”. La sfinge di Tripoli, dopo 38 anni al potere, non ha ancora dato chiari segnali di voler aprire al cambiamento e per l’Occidente resta ancora un enigma.

lunedì 18 giugno 2007

La controversia sul Mar Caspio danneggia gli europei (l'Occidentale)

Alcune settimane fa il Giornale ha pubblicato un interessante articolo (Gas, l’Eni raddoppia in Asia centrale) circa l’evoluzione della produzione di petrolio e gas nella regione del Caspio. L’autore dell’articolo, Paolo Giovanelli concludeva indicando nell’esistenza del monopolio russo del trasporto dell’energia nella regione, detenuto in particolare da Gazprom, Lukoil e Transneft, la principale difficoltà dell’Eni e degli altri operatori internazionali ad ottenere prezzi più ragionevoli per la loro produzione.La difficoltà nel “rompere” questo blocco monopolistico in modo da ridimensionare il price making russo, risiede fondamentalmente nella irrisolta questione sullo status giuridico del Mar Caspio e nell’impossibilità di realizzare vie di approvvigionamento alternative che dipartano dal lato orientale del più grande lago salato del mondo.
Decidere dello status del Mar Caspio: privilegio per pochi.La questione è emersa principalmente come effetto della fine dell’Unione Sovietica, con la conseguente nascita di nuovi Stati rivieraschi sul Mar Caspio e la volontà di sfruttare le riserve energetiche della regione. Nel 2004 le proposte di costruire una pipeline sottomarina che colleghi le due sponde del lago e si raccordi poi alla rete BTC (Baku-Tiblisi-Ceyhan) che porta in Turchia, sono state respinte da Iran e Russia a causa di presunte ricadute negative sull’ambiente. In realtà, l’opera non avrebbe giovato ai profitti dei due paesi che si spartiscono il monopolio del trasporto degli idrocarburi del Mar Caspio verso il Mar Nero e il Golfo Persico.
La Russia cerca di ostacolare la creazione di infrastrutture di trasporto alternative alle sue in grado di collegarsi con reti già esistenti verso l’Europa, come per esempio il Consorzio della pipeline del Mar Caspio (CPC) in cui partecipano molte industrie petrolifere internazionali e alla cui espansione Mosca oppone di fatto un veto se non verrà accettata la partecipazione di Transneft, il monopolista delle pipeline russo. L’Iran, invece, che possiede la più grande flotta navale per il trasporto di greggio, se fosse costruito una pipeline sottomarina vedrebbe anch’essa la propria porzione di ricavi ridotta e il suo redditizio sistema di swap, ovvero di scambio di prodotti petroliferi sul Caspio in cambio di un’uguale quantità di petrolio sul Golfo Persico, messo di fronte ad un forte concorrente.
Interessi “condominiali” e interessi nazionaliL’intreccio di questi interessi si combinano in quello che appare un tacito accordo tra Russia e Iran per mantenere i privilegi derivanti dallo status quo e soprattutto tenere alla larga dall’area altri paesi interessati alle sue preziose risorse energetiche. Tuttavia, se Iran e Urss un tempo erano gli unici stati ad affacciarsi sul Mar Caspio, oggi di stati ve ne sono cinque, con l’aggiunta di Kazakhstan, Turkmenistan e Azerbaijan più la Russia che è quel che è rimasto dell’impero sovietico.
Come suggeriva Giovanelli nel suo articolo, la Russia e gli altri stati rivieraschi del Mar Caspio dovrebbero accordarsi su quale definizione giuridica assegnare alla massa d’acqua sulla quale si affacciano e quindi come regolare le attività che si svolgono sia sulla sua superficie sia nell’ambiente sottomarino. Si tratterà di trovare una soluzione compresa tra un quadro normativo tipico dei laghi internazionali oppure uno maggiormente conforme a ciò che viene prescritto dalla consuetudine generale e da trattati internazionali sul diritto del mare. A complicare la situazione interviene anche la prassi applicata ai tempi dell’Unione Sovietica che si è rivelata piuttosto ambigua nel rapporto tra le sue “repubbliche” e l’Iran. Con quelle suddivideva il Mar Caspio in chiare zone d’influenza mentre con l’Iran parlava di condominio.
Lo status quoI trattati Iran-Urss, risalenti al 1921, al 1935 e al 1940, presumevano un “condominio” della sovranità sulle acque del Caspio, considerato alla stregua di lago internazionale. Il trattato d’amicizia del 1921 riguardava i diritti di navigazione, mentre dello sfruttamento delle risorse si parla solamente in riferimento ai diritti di pesca. L’aumento dei traffici e della pesca portarono al trattati di commercio e navigazione del 1935 e del 1940 dove venivano esclusi dalla navigazione imbarcazioni di stati terzi se non battenti bandiera russa o iraniana. Lo sfruttamento delle risorse come gas e petrolio venne definite ambiguamente. L’Iran, infatti, rilasciò una concessione sul proprio territorio per l’installazione di stazioni di pompaggio e di stoccaggio ma unicamente secondo il proprio ordinamento interno. La questione delle linee di confine non veniva per nulla affrontata e l’unico testo che sanziona il condominio de facto sul Mar Caspio è uno scambio di note allegato al trattato del 1940 in cui lo si definisce “un mare sovietico e iraniano”.
Il Mar Caspio e la fine dell’Unione Sovietica
Nel 1991, con il dissolvimento dell’Unione Sovietica, i nuovi stati indipendenti sul Mar Caspio non si sono più sentiti vincolati dai trattati precedenti. Nonostante la Dichiarazione di Alma Ata, in cui si dichiara l’intenzione di adempiere agli obblighi contratti dall’Unione Sovietica (perciò anche quelli relativi al Mar Caspio), la situazione è cominciata a complicarsi con la richiesta da parte delle neonate repubbliche di una sistemazione concordata della questione.Nel 2003 è stato raggiunto un accordo per l’istituzione di una cornice giuridica per la “Protezione dell’ambiente marino del Mar Caspio” che stabilisce la regola del condominio per le questioni concernenti la tutela dell’ambiente marino. Russia, Kazakhstan e Azerbaijan hanno poi siglato accordi bilaterali tra di loro per la definizione dei confini, escludendo però Turkmenistan e Iran che si sono anzi dichiarati contrari ad azioni unilaterali o bilaterali volte a definire la questione.
La Russia ha proposto tali accordi, rifacendosi anche alla prassi fra le repubbliche dell’era sovietica, facendo riferimento ad una linea mediana ricavata dal contorno delle coste e in pratica proponendo un criterio simile a quello contenuto dalla Convezione del Diritto del Mare di Montego Bay del 1982 per la definizione del mare territoriale, e lasciando le porzioni esterne in una sorta di regime dell’alto mare ossia libero a tutti. La Russia è comunque l’unica tra questi Stati ad avere ratificato tale convenzione, il cui contenuto non è interamente riproduttivo di una consuetudine internazionale avente carattere generale e per questo non è applicabile anche agli stati che non l’hanno ratificata (in proposito si veda il Briefing paper dell’agosto 2005 elaborato dal Royal Institute of International Affairs).
L’Iran verrebbe sfavorito da questa soluzione a causa della forma convessa della sua costa e pretende così una suddivisione alla pari tra i 5 paesi, richiedendo per sé una quota non inferiore al 20% della superficie e dei fondali. Secondo uno studio condotto da Eni, Shell e Kepco nel 1998, la sezione iraniana del Mar Caspio è potenzialmente ricca d’idrocarburi, ragione in più per non rinunciare alla propria quota. L’Iran è anche preoccupata per la propria sicurezza. In uno status di condominio e quindi di libera navigazione come stabilito dal trattato del 1940 (che non fa distinzione tra navi civili e militari), esiste potenzialmente un grave rischio per la sponda persiana del Mar Caspio. Sebbene non sia mai avvenuto, la flotta militare russa, l’unica presente in quel mare, potrebbe avvicinarsi alla popolosa costa iraniana senza che il regime di Teheran possa obiettare alcunché.
Unione Europea e Stati Uniti in panne.
Nel clima d’incertezza dei rapporti internazionali iraniani, la recente proposta di Mosca di condividere con gli Stati Uniti un sistema d’avvistamento radar in Azerbaijan deve avere fatto squillare a Teheran più di un campanello d’allarme. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea sono interessati ad evitare ingerenze di Russia e Iran e gradirebbero trattare direttamente con gli altri operatori. La definizione dello status giuridico del Mar Caspio come “mare” offrirebbe questa possibilità ed ecco perché russi e iraniani sono interessati a mantenere la situazione cosi com’è, fintanto che è possibile. Ma stando così le cose, americani ed europei possono sperare di ottenere qualche concessione in uno sforzo diplomatico rivolto al Kazakhstan, all’Azerbaijan e al Turkmenistan a cui va ad aggiungersi la volontà di impegnarsi finanziariamente per la realizzazione di costose infrastrutture e l’attuazione di politiche favorevoli finalizzate all’integrazione economica verso questi paesi situati tra il Caucaso e l’Asia Centrale.
Gli accordi del maggio scorso sulla realizzazione di nuove pipeline tra Kazakhstan, Turkmenistan e Russia lungo la costa orientale del Mar Caspio devono essere stati un doccia fredda per Ue e Stati Uniti, che invece prediligevano un tracciato sottomarino nel Mar Caspio meridionale ora però scartato. L’influenza di Mosca nei rapporti con i suoi vecchi territori imperiali sono ancora fortissimi e questo va a scapito soprattutto dell’Europa e delle sue aziende che hanno un potere negoziale sempre più ridotto, facendo inevitabilmente ricadere i costi di transazione con l’unico fornitore nell’area, le aziende statali russe, sui suoi utilizzatori finali, e cioè i cittadini europei.In mancanza di un accordo tra i cinque Stati rivieraschi rimangono ancora in vigore gli accordi tra Urss e Iran. Tuttavia, sebbene i termini degli accordi siano diventati desueti rispetto alle esigenze di crescita e sviluppo degli stati rivieraschi, chi comanda in Russia e Iran probabilmente la pensa diversamente.

venerdì 8 giugno 2007

Iran, India e Pakistan vicini all'accordo per il gasdotto (l'Occidentale)

Il 27 e 28 maggio scorsi i ministri dell’ energia di India, Pakistan e Iran si sono incontrati a Tehran per discutere la realizzazione di un gasdotto di 2775 chilometri il cui costo è fissato in 7 miliardi di dollari. La pipeline, partendo dalle acque iraniane nel Golfo Persico presso l’enorme giacimento di “South Pars” e passando per la parte meridionale del Pakistan, arriverebbe poi in India.
In realtà si parla di questo gasdotto già dal 1994, ma le alternanti fasi del conflitto tra India e Pakistan sulla regione del Kashmir, l’insicurezza della stessa regione del Pakistan dove il gasdotto dovrebbe passare e il prezzo troppo alto richiesto dall’Iran per il proprio gas (oltre alla presenza di progetti concorrenti provenienti da Qatar e Turkmenistan) hanno allungato i tempi.
L’importanza di questo gasdotto risiede nella crescente domanda d’energia proveniente dall’India, il quinto consumatore mondiale nel 2006. Soprattutto, un Paese in continua espansione, il cui prodotto interno lordo è destinato a crescere nei prossimi anni. La strategia di Nuova Delhi per mantenere questo ritmo di crescita, secondo un recente rapporto della Commissione di Programmazione Indiana consiste nel triplicare l’offerta d’energia e quintuplicare la produzione di corrente elettrica.
L’aumento delle proprie importazioni di gas naturale dall’estero attraverso gasdotti e rigassificatori sono parte essenziale di questa strategia. Con il Bangladesh il Myanmar e l’Iran vi sono per esempio progetti per creare una rete di condutture di approvvigionamento regionale. Inoltre l’India ha oggi l’urgente necessità di costruire nuovi rigassificatori dato che i due impianti attualmente disponibili non sono sufficienti a garantire lo sviluppo del mercato del gas fermo a solo il 9% de totale delle fonti utilizzate. Per queste ragioni sono in fase di progettazione nuovi impianti e alcuni accordi di fornitura già operativi di LNG o gas naturale liquefatto, con Qatar e Iran sono solo il punto di partenza di questa strategia energetica di lungo periodo.
I tracciati delle pipeline, in una regione instabile ma con enormi possibilità di sviluppo.Per quanto riguarda la nuova rete di pipeline, in questi ultimi anni si è discusso molto di tre progetti in particolare: il primo quello prevalentemente sottomarino tra il Qatar – Pakistan – India; il secondo conosciuto come il gasdotto “trans-afgano” che dovrebbe collegare i giacimenti gasiferi del Turkmenistan attraverso l’Afghanistan, il Pakistan e l’India (da Nord a Sud); e il terzo, la “pipeline della pace” appunto, tra Iran, la regione orientale del Pakistan chiamata Beluchistan, e il Punjab in India (da Ovest a Est).
Tuttavia diversi criteri di valutazione indicano che il gasdotto proveniente dall’Iran è, allo stato attuale quello preferibile e quello che con molta probabilità verrà realizzato per primo. Anzitutto, a giocare a favore dell’ipotesi iraniana vi sarebbero i costi di realizzazione e la valutazione sui costi-benefici. Le condutture sottomarine provenienti dal Qatar, infatti, sono almeno quattro volte più costose da realizzare rispetto a quelle terrestri.
Il gasdotto proveniente dal Turkmenistan sarebbe invece un tracciato con maggiori incognite rispetto a quelli alternativi. Le riserve fatte stimare dalla Banca Asiatica di Sviluppo (tra i promotori del progetto) del campo gasifero di Dauletebad (da cui partirebbe la pipeline della Repubblica centro asiatica) e sfruttate da più di un quarto di secolo, non sarebbero sufficienti a soddisfare il fabbisogno richiesto e richiederebbe maggiori investimenti per collegarlo ad altre aree.
In secondo luogo, la sicurezza del tracciato. Il tracciato trans-afgano transiterebbe per le regioni sud occidentali dell’Afghanistan al confine con il Pakistan: si tratta delle zone più turbolente e “talebanizzate” e di cui difficilmente si può prevedere il futuro dato il protrarsi della fase di gelo tra Karzai e Musharaf e la crescente incertezza circa il futuro politico del Pakistan. Infine, sempre in Pakistan nella zona del Beluchistan, negli ultimi anni gruppi separatisti locali hanno più volte attaccato pipeline esistenti mettendo in dubbio la capacità del governo federale pakistano di riuscire a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti energetici.
L’incontro trilaterale di Tehran per discutere delle modalità di definizione del prezzo del gas e, in particolare, delle tariffe che il Pakistan intenderebbe applicare al gas in transito verso l’India ha avuto esito positivo.
Secondo l’agenzia di stampa iraniana IRNA le differenze si sarebbero ridotte e dopo la conclusione dell’accordo previsto per il 30 giugno, la prima parte del gasdotto, all’incirca 900 chilometri, dovrebbe essere realizzato entro dicembre 2008.
L’Iran sarebbe il vero vincitore dell’accordo.Gli effetti geopolitici derivanti dalla realizzazione del gasdotto sono molteplici. Innanzitutto, gli Stati Uniti negli ultimi anni non hanno nascosto di essere piuttosto insoddisfatti dalla prospettiva di un gasdotto di cui l’Iran è parte essenziale e che di fatto rafforza la posizione regionale del paese degli Ayatollah. Inoltre dimostra che, nonostante l’accordo del 2005 tra India e Stati Uniti circa la fornitura di materiale fissile per le centrali nucleari indiane ad uso civile, Washington ha una ridotta influenza nel subcontinente e si deve limitare a pesare relativamente poco nella politica regionale dell’Asia meridionale.
Uno dei progetti di gasdotto ventilati, quello trans-afgano, ha una cospicua partecipazione americana con UNOCAL. La realizzazione del progetto infatti consentirebbe di evitare l’approvvigionamento di risorse energetiche dal Golfo Persico ma, come dicevamo, rimangono le incertezze date soprattutto dall’ instabilità delle regioni interessate.
Per quanto riguarda il conflitto del Kashmir, India e Pakistan sembrano andare verso la strada di una ulteriore distensione dei rapporti, cosa che verrebbe facilitata se il Pakistan accettasse di applicare interamente i termini del SAFTA, il trattato di libero scambio dell’Asia meridionale ratificato dal Pakistan nel 2004. L’evoluzione dello storico conflitto tra India e Pakistan dipenderà soprattutto da come il Pakistan affronterà il prevedibile indebolimento di Musharaf (che dovrà scegliere tra pochi mesi se rimanere a capo dell’esercito come richiesto dalla crescente opposizione interna oppure guidare il paese attraverso una infuocata crisi interna).
Sarà inoltre interessante verificare come la crescita del fanatismo religioso influenzerà il governo federale e se l’irrequietezza delle remote regioni tribali avrà effetti centrifughi sul potere centrale. L’Iran infine sarà plausibilmente il vero vincitore dell’accordo del prossimo 30 giugno, perché riuscirà non solo a indebolire ulteriormente l’isolamento internazionale dovuto alla crisi derivante dallo sviluppo del nucleare ma anche a consolidare un ruolo centrale nel sistema di approvvigionamento regionale grazie alle sue ricche riserve di idrocarburi.Tutto ciò consentirà all’Iran di incrementare le entrate dello stato e quindi rafforzare la legittimità interna del regime, incrinata dalla gestione politicizzata, settaria e corrotta della propria rendita energetica.