venerdì 20 aprile 2007

Perchè la Russia vuole il cartello del gas (l'Occidentale)

Il Financial Times ha pubblicato il 9 aprile la notizia di un incontro ad alto livello avvenuto a Doha, Qatar, tra delegati dei maggiori paesi esportatori di gas e capeggiati dalla Russia con lo scopo di discutere possibili “politiche di prezzo comuni” e altre questioni riguardanti il settore del gas. Il Gas Exporting Countries Forum (GECF), le cui attività sono iniziate nel 2001, vede tra i suoi membri diversi paesi tra cui Algeria, Bolivia, Brunei, Egtto, Indonesia, Iran, Libia, Malaysia, Nigeria, Norvegia (in qualità d’osservatore), Oman, Qatar, Russia, Trinidad & Tobago, gli Emirati Arabi Uniti e il Venezuela rappresentando all’incirca il 73% delle riserve conosciute il 40% della produzione di gas mondiale. La recente iniziativa ha come obiettivo l’avvio di un processo di studio e ricerca che dovrebbe portare all’istituzione di un cartello simile a quello dei principali produttori di petrolio, l’Opec.
Sebbene la natura dei due mercati, gas e petrolio, siano sostanzialmente diversi data dalla rigidità e carattere regionale del mercato del gas che viene normalmente trasportato tramite gasdotti e in cui il prezzo viene contrattato su di un lungo periodo (anche 25 anni) sulla base del prezzo del petrolio, l’incremento internazionale degli investimenti del LNG o del gas liquefatto e quindi di un maggior flessibilità anche di questo mercato (esiste già un mercato spot del gas). In particolare la Russia (la quale rappresenta il 22% della produzione mondiale e il 54 % della capacità produttiva della GCEF) che domina il mercato europeo (e che assieme all’Algeria copre più del 40% del fabbisogno complessivo dell’Europa) delle forniture di gas vede nello sviluppo del settore del gas liquefatto un rischio per la sua posizione di forza.
Viktor Khristenko, il ministro dell’energia russo ha dichiarato che sarà proprio la Russia a condurre lo studio, che verrà presentato nel prossimo incontro annuale del GECF che si terrà a Mosca, sulla possibilità di realizzare politiche di prezzo comuni. Sebbene la prospettiva della formazione di un cartello del gas abbia suscitato la preoccupazione di molti, soprattutto europei, e che la Russia abbia cercato di smorzare i toni dell’iniziativa è evidente che la creazione di questo cartello sarebbe a tutto vantaggio agli interessi immediati di Mosca dato che Iran e Venezuela non sono esportatori netti di gas. Inoltre alcuni progetti russi di sviluppare gasdotti e impianti di liquefazione del gas (il progetto Shtokman) in Oriente hanno subito ritardi facendo temere che altri fornitori di gas possano battere la Russia sul mercato asiatico.
Kazem Vaziri-Hamaneh, il ministro del petrolio iraniano, al suo ritorno a Teheran ha enfatizzato il fatto che l’incontro di Doha sia stato “il più positivo del suo tipo” e che la Russia ha raggiunto il suo convincimento grazie anche alle idee del Supremo leader Ali Khamenei” (MNA) il gennaio scorso. E’ inutile aggiungere che per l’Iran “l’ottima accoglienza” ricevuta a Doha da parte degli altri membri del GECF rientra nei suoi tentativi di allentare l’isolamento in cui si trova dopo le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
La difficoltà nello stabilire un coordinamento tra i produttori dipende, non solo dalla natura stessa del mercato del gas, ma anche dalle profonde differenze tra i membri del forum e dalle diverse agende politiche da essi perseguiti. La freddezza del giudizio del Wall Street Journal, che ricorda che non è la prima volta che la Russia propone un accordo tra i produttori del genere riflette forse il fatto che gli Stati Uniti non dipendono come l’Europa dalle importazioni dalla Russia. Il primo ministro del Qatar, Abdallah bin Khalifa al-Thani, paese che ha ospitato il Forum di quest’anno ha dichiarato che l’idea del cartello “rafforza le nostre posizioni e ci assegna un ruolo chiave nel rifornire il mercato mondiale con risorse energetiche e nella crescente domanda futura” (RIA Novosti). La Russia evidentemente, in quelli che presumibilmente, a meno di colpi di scena, sono gli ultimi scampoli dell’esperienza di Putin in qualità di Presidente cerca di consolidare la sua sorgente di nuova grande influenza internazionale che sono le fonti energetiche e in particolare il gas.
Fareed Zakaria, autore del libro “democrazia senza libertà” ha ben illustrato come è difficile aspettarsi un movimento di sviluppo politico positivo da quei paesi i cui governi, per la maggior parte autocratici, “sopravvivono” alla mancanza di legittimità grazie al reddito derivante da risorse naturali come il gas, anziché da un sano sistema fiscale fondato su di un’economia che privilegia il lavoro come fonte di ricchezza. Da un presupposto come quello appena illustrato, la situazione russa attuale, appesantita dalle recenti dimostrazioni di forza interne mette fortemente in dubbio che ci possa essere un movimento di riforma interno proveniente dalle classi di potere. Ma forse ciò che la comunità internazionale in genere preferisce ora è la stabilità a scapito della riforma. In questo spazio d’incertezza, il cartello del gas promosso da Putin è una mossa politicamente logica.

martedì 17 aprile 2007

Sul "diritto a portare armi" da James Madison a Virginia Tech (l'Occidentale)

Gli eventi al campus universitario in Virginia hanno riportato l’attenzione sulla necessità di un più stretto controllo della vendita delle armi da fuoco negli Stati Uniti. Il fenomeno della diffusione delle armi da fuoco nel paese e la facilità con cui è possibile procurasele richiedono soprattutto da parte dell’opinione pubblica europea un minimo di comprensione culturale e storica “del diritto di portare armi” negli USA. E’ bene fare riferimento innanzitutto alla Costituzione. “Essendo necessaria alla sicurezza di uno stato libero una ben regolata milizia, il diritto del Popolo di detenere e portare armi non sarà violato.” Questo è il testo del secondo emendamento alla costituzione degli Stati Uniti d’America redatto da James Madison nel 1789. La repulsione dei coloni americani per i governi tirannici europei aveva portato in sede di Convenzione ad un compromesso tra federalisti e anti-federalisti nel loro modo di affrontare il problema del “Popolo”. Il fatto che in Europa la gente comune fosse stata “disarmata” era visto da molti, tra cui Benjamin Franklin, come segno di sottomissione all’aristocrazia e all’antico regime. Per altri come Adams invece affidare troppe responsabilità (e libertà) al popolo avrebbe significato correre il rischio di cadere in una situazione simile a quella della Rivoluzione Francese: l’anarchia.
Nonostante la Guerra Rivoluzionaria, gli Stati Uniti mantenevano, e mantengono tuttora, ancora il loro contatto con la “madre-patria” Gran Bretagna tramite la comunanza del sistema giuridico di common law. Tra questi vi era il diritto ottenuto dai Protestanti, sancito nel Bill of Rights del 1689, di portare armi per la propria difesa personale, precedentemente impedito dal deposto Re cattolico Giacomo II. Questo diritto fu infatti invocato dai coloni nelle fasi iniziali della Rivoluzione quando le giubbe rosse cominciarono a disarmare le milizie, in pratica violando una norma di common law come ebbe a recriminare lo stesso John Adams. Nel ventesimo secolo, la milizia è stata sostituita con la Guardia Nazionale e il “diritto collettivo” di auto-difesa è stato ridotto, sia dalla legislazione che dalla giurisprudenza a “diritto individuale” ossia al diritto di detenere armi da fuoco.
Il divieto di vendere armi da fuoco per corrispondenza fu introdotto solo negli anni sessanta in seguito alla morte del Presidente Kennedy sotto i colpi di Oswald che acquistò il fucile semplicemente firmando un modulo da inviare al venditore. Tuttavia la legislazione in materia viene demandata agli Stati che regolano la materia in modo differenziato. Per esempio in Virginia è molto semplice ottenere un’arma da fuoco una volta compiuti i 21 anni. Sebbene vi sia un divieto nel portare le armi nei campus è vero anche che non è così appena fuori dal perimetro dell’ateneo. Nella confinante District of Columbia sede della capitale Washington invece è ovunque vietato portare con se armi da fuoco.
La National Rifle Association, le famigerata associazione dei possessori di armi da fuoco che da anni fa lobbying al Congresso per garantire che il diritto a portare armi venga tutelato, difficilmente potrebbe opporsi ad un’ondata di sdegno popolare che richiedesse una più stretta limitazione della circolazione delle armi da fuoco. Data la difficoltà procedurale e politica di modificare il secondo emendamento, l’unica strada a questo fine è un’azione a livello statale anziché federale e l’interevento interpretativo da parte delle corti in particolare da parte della Corte Suprema.Nonostante l’unicità dell’esperienza americana è davvero impossibile sostenere la ragionevolezza di una situazione di questo genere in cui chiunque può acquistare armi automatiche e commettere stragi e ci fa chiedere ai nostri amici americani se ritengono che la libertà di auto-difesa contro la tirannia di invasori stranieri e dall’ingerenze del governo tutelata dai Padri Fondatori abbia minimamente qualcosa a che fare con le stragi negli istituti scolastici e possa permettere che fatti come quelli del Virginia Tech occorsi ieri accadano ancora.

mercoledì 11 aprile 2007

Isolare l'Iran per stabilizzare il Golfo Persico (l'Occidentale)

La liberazione dei 15 tra marinai e royal marines britannici pone termine alla crisi scaturita dalla cattura compiuta 13 giorni fa dalle guardie rivoluzionarie iraniane, verosimilmente in acque irachene. Questo episodio esemplifica l’atteggiamento del regime iraniano negli ultimi decenni e in particolare mostra cosa gli ayatollah in realtà vogliano: legittimazione. La vicenda dei prigionieri, che è apparsa come pretestuosa fin dall’inizio a causa dell’incertezza sul luogo del presunto sconfinamento inlgese, si è conclusa con il “beau geste” del presidente Ahmadinejad che ha fatto un “dono” al popolo britannico durante la settimana che divide il compleanno del Profeta e le festività pasquali cristiane ed ebraiche. La Gran Bretagna di Tony Blair che, secondo le parole dello Ahmadinejad, si è limitata a promettere che “incidenti” simili non si sarebbero più ripetuti, ringrazia.
Nelle ultime settimane il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva unanimemente condannato l’Iran per la sua mancata collaborazione con l’Agenzia Atomica internazionale nelle ispezioni degli impianti di arricchimento dell’uranio dove perfino la Russia, che rifornisce di carburante nucleare l’Iran, pare che abbia raffreddato i suoi rapporti con Teheran. Il primo ministro Blair in seguito alla cattura del personale britannico è riuscito anche ad organizzare un fronte di condanna abbastanza largo (sebbene piuttosto differenziato) sufficiente ad impensierire i vertici dell’Iran sull’opportunità della continuazione della crisi. Una situazione d’isolamento internazionale rafforzata dalle misure sanzionatorie internazionali di natura economica e finanziaria prese nei mesi scorsi che hanno avuto effetti sensibili all’interno del paese.
Ma quale motivo c’era di catturare 15 prigionieri per poi liberarli senza alcuna contropartita visibile?
Il fatto è che dal 1979 in Iran è in atto una “rivoluzione islamica” che ha la volontà d’imporsi sui propri vicini e d’influenzare in modo rilevante i rapporti della comunità internazionale grazie alla sua posizione sulla più importante “cerniera strategica” del mondo: il Golfo Persico.
La precarietà “originaria” del regime teocratico non dovrebbe essere di grande rilievo in una regione in cui la maggior parte dei governi sono rappresentate da autocrazie di varia natura. La grande differenza sta nel fatto che il regime iraniano attuale pretende di essere il legittimo rappresentante del glorioso popolo persiano organizzato secondo uno delle poche esperienze statuali funzionanti di Islam politico: lo sciismo dell’ayatollah Khomeini. Come la storia della Rivoluzione Francese insegna i regimi rivoluzionari sono afflitti da mania di persecuzione a livello istituzionalizzato e generano reazioni imprevedibili. Nel caso dell’Iran però sembra che i 30 anni passati in questo stato in cui la necessità di sopravvivenza superavano ogni altro possibile interesse, abbiano sviluppato una notevole capacità di calcolo politico e adattamento alla situazione internazionale. La realtà degli assetti di potere interno fanno si che la guida del grande ayatollah Ali Khamenei sia la fonte della strategia di lungo termine mentre il presidente Ahmadinejad non sarebbe altro che la voce della “pancia” dell’opinione pubblica nazionalista e della potente fazione (anche economicamente) dei pasdaran.
Oggi l’Iran si trova messo oggettivamente all’angolo e la sua volontà di acquisire e sviluppare tecnologia nucleare definito come “diritto inalienabile” (ma in realtà frutto delle ambiguità del trattato di non-proliferazione) denota la volontà di resistere ad ogni costo alla comunità internazionale e di sfruttare la sua posizione geopolitica privilegiata per intaccare l’influenza nella regione degli Stati Uniti, il “Grande Satana”. Il coinvolgimento iraniano in Palestina, Libano e Iraq sono però segno che Teheran non resterà a guardare e il suo scopo sarà quello di rafforzare la propria influenza danneggiando quella altrui. Obiettivamente oggi l’Irak è per gli Stati Uniti un fronte troppo ampio e scoperto perché gli iraniani non ne traggano vantaggio.
La “stretta” del Consiglio di Sicurezza e l’arrivo nel Golfo del secondo gruppo navale americano fanno pensare perciò che qualcuno in Iran (i pasdaran?), facendo prigionieri i 15 britannici, avesse scelto di prendersi una sorta di “assicurazione” contro una possibile azione militare alleata. Difficilmente sarebbe stato ipotizzabile un attacco mentre l’Iran tratteneva il personale militare del più stretto alleato degli Stati Uniti, il Regno Unito. Il precedente della lunga prigionia degli ostaggi dell’ambasciata americana facevano temere per una lunga ed estenuante partita negoziale. Ma qualcuno (il grande ayatollah Khamenei) ha deciso che una soluzione di questo genere non era attualmente percorribile e che anzi c’era la possibilità di uscire dall’isolamento mostrando al mondo la propria “umanità” e la propria disponibilità a trattare in cambio del riconoscimento del regime iraniano.
In questo senso è interessante notare l’atteggiamento del re Abdullah dell’Arabia Saudita che non solo ha recentemente ricevuto Ahmadinejad a Riad ma, durante l’incontro della Lega Araba per rilanciare la proposta di pace saudita tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese ha anche trovato il modo di definire “occupazione” la presenza americana in Irak, prendendo le distanze platealmente dagli Stati Uniti. L’interesse saudita di evitare una corsa agli armamenti nucleari nella regione e un possibile conflitto nel quale sarebbe inevitabilmente coinvolto fanno sì che la tradizionale e reciproca diffidenza (se non disprezzo) tra l’Arabia Saudita wahabbita e Iran sciita venga momentaneamente ricomposta in nome della real politik.
L’obiettivo strategico del regime iraniano è ridurre l’influenza degli Stati Uniti nel Golfo Persico nel lungo termine sponsorizzando Hamas, Hezbollah e la guerriglia irachena; consolidare il regime cristallizzando lo staus-quo per quanto riguarda la propria sovranità (vedi disputa sui confini delle acque territoriali con l’Iraq) e venire a patti con chiunque sia in grado di assicurare la propria sopravvivenza nel breve termine fino a quando non si sarà dotata di armi nucleari.
Il protrarsi dell’isolamento e dei suoi effetti, oltre al fatto che gli Stati Uniti sembrano non mollare la presa in Iraq, indica una svolta che al momento sembra più tattica che strategica: cercare di rompere il fronte dell’isolamento, mostrarsi benevoli con l’alleato più importante degli Stati Uniti, la Gran Bretagna e sperare che i paesi più importanti della regione abbiano più paura di un conflitto dell’Iran.
Da questo punto di vista l’atteggiamento sardonico e squisitamente levantino dell’Iran che da una parte blatera e dispensa doni con Ahmadinejad ma poi pensa e agisce con Khamenei possono essere una chiave di lettura per comprendere la dinamica della lotta per il potere in Medio Oriente: ricerca di legittimazione sulla “strada araba” (sebbene con accento Farsi) e dall’altro ricerca di legittimazione internazionale e regionale usando la minaccia d’acquisire il nucleare e, soprattutto, le debolezze altrui.
Il “dono” di Ahmadinejad, su ordine di Khamenei, sono il segno della propria debolezza e che l’Iran è pronto a trattare, sebbene non sia ancora chiaro entro quali termini. L’isolamento sta funzionando e l’Occidente non deve farsi scappare l’opportunità di ricondurre l’Iran, secondo condizioni precise e rigorose, nell’alveo della comunità internazionale.