venerdì 30 marzo 2007

L'ambientalismo è conservatore e gli inglesi lo sanno (l'Occidentale)

David Cameron, capo del partito Conservatore Britannico ha fatto della campagna di tutela dell’ambiente uno dei punti centrali della sua leadership. Si può essere legittimamente sospettosi del fatto che Cameron sia davvero un convinto ambientalista a causa di alcuni suoi alternanti comportamenti. Ciò non toglie cha abbia colto nel segno. I conservatori sono da anni alla disperata ricerca di un’identità rinnovata che li leghi ai nuovi problemi della società e non li faccia rimanere ancorati nell’immaginario degli elettori a politici poco affidabili e per di più senza idee. Tony Blair aveva vinto le elezioni nel maggio del 1997 mettendo il partito laburista dove doveva stare se voleva stare al governo: lontano dalla vecchia sinistra anni ’70-‘80.
Oggi i conservatori vogliono tornare a vincere allontanandosi dai dettami di Lady Thatcher tra cui forse il cui più famoso era: “la società non esiste: esiste solo l’individuo”. Altri tempi. Altri nemici da combattere. Le convinzioni di fondo che giustificano questo “nuovo ambientalismo” derivano dall’avere colto nella questione, come suggerito da Roger Scruton, alcuni aspetti coincidenti con il pensiero conservatore classico. Si tratta, in particolare, di contrastare l’interpretazione “costruttivista” tipica della sinistra che nella sua storia ha sempre posto un tema in modo ideologico (ossia non-negoziabile) a scapito della continuità di lungo periodo e dell’equilibrio.
L’Unione Sovietica, per esempio, ordinava l’esecuzione di progetti ciclopici e lo spostamento di intere popolazioni per realizzare la propria utopica “nuova società”. La Cina lo fa tuttora realizzando gigantesche dighe e “trasferendo” fisicamente senza troppi problemi migliaia di villaggi e milioni di persone. A esprimere meglio questa visione è forse Edmund Burke che contrapponendosi in parte alle teorie di Rousseau, descriveva l’ordine politico come un contratto stabilito tra i viventi, le persone non ancora nate e i morti. I viventi sarebbero così nient’altro che affidatari del mondo e le conquiste ereditate dalle generazioni precedenti dovrebbero essere passate a quelle non ancora nate. I viventi possono avere un interesse a consumare tutte le risorse ma, secondo questa visione, non è per questo che i morti hanno lavorato e vissuto. Le persone non ancora nate perciò dipendono dal nostro atteggiamento verso l’uso “sostenibile” delle risorse.
Il risultato è che l’equilibrio sociale di lungo periodo dipende quindi anche dall’equilibrio ecologico. Il pericolo è che emergenze o “appetiti” attuali distruggano quelle risorse e quelle istituzioni in grado di generare il vero equilibrio sociale e il mantenimento dell’organismo sociale. Ciò che secondo Burke mantiene e promuove questo equilibrio è connaturato alla natura umana: l’amore. E’ infatti molto più facile pensare al bene dei propri figli piuttosto che perseguire qualche fine ideologicamente ricevuto. Ma come si fa a realizzare un programma politico su queste basi? Partendo dal ragionamento di un altro pensatore conservatore inglese Hume e cioè che le motivazioni benevole sono intrinsecamente deboli ma sono però delle motivazioni generalmente condivise e che, dove gli interessi di ciascuno non sono direttamente coinvolti allora quelle motivazioni benevoli possono essere convogliate utilmente da politici lungimiranti verso un’unica direzione.
Ecco allora che “l’amore per la propria terra”, causa conservatrice per eccellenza, coincide con il desiderio che l’ambiente non perisca a causa nostra. Lo scopo della politica conservatrice è allora impedire una riorganizzazione traumatica della società secondo qualche principio ordinatore vigilando che il patrimonio collettivo, costituito dal capitale “sociale”(ossia dalle leggi, tradizioni e istituzioni della nazione), dal capitale “materiale”(ossia l’ambiente) e dal capitale “economico”(ossia un mercato bastato sulla libera concorrenza e governato dalla legge) non venga disperso e dilapidato. David Cameron sembra avere compreso l’opportunità politica di ricollegare il partito conservatore ad un elettorato giovane in cerca di punti di riferimento certi e di risposte concrete. Tuttavia dovrà fare i conti con la vecchia guardia che, per ora, lo lascia fare perché disposta a tutto pur di scalzare il New Labour di Tony Blair dal governo del Regno Unito.

sabato 24 marzo 2007

Ripensare l'Europa a cinquant'anni di distanza (l'Occidentale)

Domani 25 marzo si celebra il 50° anniversario del Trattato di Roma, l’atto di fondazione delle Comunità Europee. Nonostante i tentativi da parte del governo italiano di avere a Roma l’evento principale, l’incontro informale dei 27 capi di governo degli stati membri si terrà a Berlino, come richiesto dalla presidenza di turno tedesca. Questo particolare delle imminenti celebrazioni inaugura forse una stagione nuova e un nuovo clima, in cui i governi nazionali intendano rilanciare il progetto europeo in modo più pragmatico. Forse è giunto il momento di guardare avanti verso le nuove sfide e di non sedersi più sugli allori dei notevoli risultati fin qui ottenuti, ma ormai datati se confrontati con le sfide attuali e future. La sfida culturale in particolare, sebbene in sottofondo, appare quella di maggiore rilievo, in grado di formare le politiche future di maggior incidenza per i cittadini dei paesi dell’Unione.
In un recente incontro all’Istituto degli Studi di politica internazionale a Milano, l’Ambasciatore Renato Ruggiero parlando ad una platea di eurofili e federalisti ha illustrato quali difficoltà si presentassero all’incontro di Berlino. Ruggiero ha chiaramente spiegato come l’Unione Europea abbia concluso una sua fase storica con l’allargamento ai paesi dell’Europa centrale e orientale avvenuto nel 2004. Il secco “no” francese e olandese nei referendum sul Trattato costituzionale hanno fatto prendere definitivamente coscienza di questa realtà e iniziato quella che si può chiamare una fase di elaborazione del “lutto” nell’establishment di Bruxelles e delle cancellerie europee. Sebbene si sia dimostrato cauto, l’ambasciatore, al quale il Presidente del Consiglio Prodi ha affidato il compito di essere il negoziatore italiano nella ripresa dei lavori sul Trattato costituzionale, mantiene inalterato il suo proverbiale europeismo. Al contrario degli euro-entusiasti, molti ritengono che la repentina perdita di un punto di riferimento importante quale quello della “missione da compiere” di riunire l’Europa mette a rischio la base di legittimità stessa del progetto europeo. Sono anni che si parla di “gap democratico” nelle istituzioni dell’Unione e di derive elitarie ma tutto veniva poi risolto dal valore storico e programmatico del grande progetto. Ma ora che con l’Allargamento tutto è stato compiuto, qual è la nuova grande missione europea?
Sempre domani nel corso della riunione informale a Berlino verrà affrontato lo spinoso tema del futuro degli assetti istituzionali dell’organizzazione in una membership a 27, dove sostanzialmente vengano ridotte le possibilità da parte di uno Stato di imporre il proprio veto in molte materie, a cui il Trattato costituzionale attualmente in uno stato di limbo, ha cercato di dare risposta. Il “metodo Merkel”, ovvero l’approccio adottato dalla Presidenza tedesca per riportare in agenda alcune delle modifiche proposte ai trattati vigenti e contenute nel testo congelato del “trattato costituzionale” sembra abbia cominciato a dare i suoi frutti e già si sa che verrà eliminato il termine “costituzionale” con la ricerca di una maggiore intesa di tipo politico a scapito di una visione prettamente giuridica dell’Europa e ridimensionando le pretese di chi sogna la nascita di un super stato europeo.
L’incontro di inizio marzo a Berlino del Consiglio Europeo invece ha affrontato numerosi temi dai quali è possibile scorgere quali siano i punti essenziali dell’operazione di rilancio. In primo luogo rafforzare il mercato unico e la cornice entro cui sviluppare innovazione, competitività e crescita, richiamando quindi l’applicazione integrale dell’ “Agenda di Lisbona” che finora è stata una macchia nera per l’UE data la lentezza della sua applicazione, ma ora incoraggiata nuovamente dai risultati economici positivi dell’economia europea durante l’anno passato. In secondo luogo migliorare il quadro della regolamentazione europea per favorire le imprese. Infine l’elaborazione di una strategia della sicurezza energetica in combinazione con una decisa intenzione di ridurre le emissioni di gas serra di almeno il 20 % entro il 2020. Tutte queste lodevoli iniziative sottolineano come la principale fonte di consenso dell’Unione Europea sia quello di riuscire a promuovere il mercato unico sostenendo la modernizzazione delle imprese e ampliando le garanzie dei consumatori. Un consenso fondato quindi sui risultati concreti e sull’utilità proveniente dalle proprie azioni.
Un modello europeo di società
I tentativi recenti di ricucire la distanza presente tra le istituzioni e le società europee in un opera che provocatoriamente si potrebbe definire di “nation building”, cerca appunto di “nazionalizzare” l’Unione Europea. L’apice di questo atteggiamento si trova nella definizione di “patria costituzionale” proposta da Jurgen Habermas che ha notevole pertinenza in un continente in cui le identità si mischiano e i confini sono sostituiti dai nuovi e più estesi diritti di cittadinanza. Ma ai rapidi cambiamenti nella demografia hanno corrisposto sentimenti di auto-protezione e insofferenza tra le popolazioni native che hanno generato un risorgere della xenofobia di estrema destra in molti paesi europei. Ciò che però l’Unione Europea non sembra intenzionata ad affrontare è il riconoscimento e integrazione di quegli ideali di giustizia sociale e valori di solidarietà che rappresentano il tessuto vivente della civiltà europea. Agli inizi degli anni ’90 l’allora Presidente della Commissione Europea, Jacques Delors aveva inaugurato un “modello sociale europeo” in cui si cercava di rispondere a livello di welfare al bisogno di coordinamento delle politiche sociali dei membri e fornire una riposta in termini quantitativi alla necessità di garantire la coesione sociale europea.
La consapevolezza dell’apertura della nuova fase storica europea iniziata con l’allargamento del 2004 rende oggi necessaria la comprensione di quello che potrebbe venire ribattezzato “il problema sociale europeo”. Per dare una risposta alla questione Gerard Delanty, professore dell’Università di Liverpool, in un suo recente lavoro, tenta di definire le caratteristiche di un “modello europeo di società”. Si tratterebbe cioè di coltivare un identità cosmopolita all’interno delle società nazionali di modo che non sia l’Unione Europea a prendersi tutto l’onere, che del resto non le compete, di assumere le sembianze di una patria, ma in cui siano gli stessi Stati membri i veri protagonisti di questo processo di coesione culturale e politica. L’incontro di questa settimana a Berlino può porre le basi essenziali per iniziare questa nuova fase. Tuttavia non può venire nascosto il fatto che ciò di cui si tratta riguarda un’evoluzione che coinvolgerebbe più generazioni. Ma questa in sintesi sarebbe la possibilità storica di questo momento: trasformare l’Unione Europea da un’organizzazione pensata per servire più i governi che i cittadini ad uno spazio di condivisione di valori in cui le istituzioni europee e nazionali siano pienamente legittimate nelle loro funzioni e conformate ad un principio di equilibrio dei poteri. In definitiva la realizzazione di una Costituzione politica europea.