martedì 15 maggio 2007

Prospettive per il Regno Unito del dopo Blair (l'Occidentale)

L’annuncio delle prossime dimissioni di Tony Blair dalla guida del Partito laburista e dalla guida del governo avviene senza sorprese dato che la decisione era già stata presa nel settembre 2006 . Il passaggio di consegne sembra essere il frutto di un accordo, il cui esatto contenuto non è mai stato rivelato, stretto prima delle elezioni del maggio 1997 che portarono i laburisti al potere dopo quasi vent’anni. Si presume che il contenuto dell’accordo fra Blair e Brown consistesse nel limitare a due i mandati del sicuramente più popolare Blair per poi lasciare campo libero a Brown. Il terzo mandato ottenuto nel 2005 e il fatto che Blair sembrava non volere lasciare lo scettro, ha incrinato il rapporto tra i due e reso incontrollabile per Blair il gruppo parlamentare laburista. Era tempo di andare e la concomitanza dell’annuncio delle dimissioni con i risultati delle elezioni locali di una settimana fa non è stato certo un fatto casuale.
Mentre Lady Thatcher ha riformato il sistema economico del Regno Unito con ricadute sociali “dolorose”, facendo perno su di un sistema politico e istituzionale già intrinsecamente forte e tendenzialmente conservatore, Tony Blair ha governato e tratto i benefici degli sforzi di chi lo ha preceduto con un programma politico sintetizzabile nella formula “valori tradizionali in un contesto moderno”, volto a modernizzare le istituzioni politiche spiazzando i suoi oppositori conservatori, che infatti hanno perso tre elezioni generali consecutive per la loro incapacità di “digerire la medicina” preparata dal Primo ministro laburista.
La questione allora è di capire come cambierà internamente lo scenario politico del Regno Unito una volta che, a fine giugno, Blair non ci sarà più e se ci saranno delle conseguenze per l’Europa. Gordon Brown ha avuto negli ultimi anni, come Cancelliere dello Scacchiere, un’autorevolezza ampiamente riconosciuta e fondata sugli eccellenti numeri espressi dall’economia britannica. L’iniziativa di stabilire l’indipendenza della Banca d’Inghilterra e di porre in modo trasparente gli obiettivi di tenere sotto controllo l’inflazione e diminuire la disoccupazione sono opera sua, come sua è stata l’idea di tenere fuori il Regno Unito dall’euro. E’ risaputo che Blair si sia sempre occupato poco di economia e abbia lasciato fare al suo Cancelliere.
Quello di cui Brown non si è occupato è soprattutto la politica estera. All’indomani dell’annuncio delle dimissioni del Primo ministro - che ha proclamato di ritenere giusta la sua decisione di intervenire in Irak -, Brown ha già dichiarato che quella decisione è stato uno sbaglio, facendo riflettere sul futuro della “special relationship” con Washington. Il Royal Institute of International Affairs, in un suo recente paper sulla politica estera del governo laburista e sui possibili scenari futuri, ha concluso che “un singolo paese europeo difficilmente può trarre un significativo beneficio individuale dai propri rapporti transatlantici perché i benefici inevitabilmente ricadranno sull’intera Unione Europea, salvo specifici accordi di scambio di tecnologia militare, e soprattutto con un Congresso americano con marcate inclinazioni protezioniste che tratteranno il Regno Unito come qualsiasi altro paese”.
Atlantista convinto, Gordon Brown dovrà fare i conti con una fase in cui quelle che a partire dal secondo dopoguerra sono state le tradizionali sfere d’interesse di Regno Unito, Stati Uniti, Europa e Commonwealth dovranno andare incontro a qualche revisione sotto il peso di fattori interni, quali le dinamiche ancora imprevedibili in seno al partito laburista e all’opinione pubblica britannica, ed estern,e quali l’attesa per l’elezione del nuovo presidente americano e il rilancio del progetto europeo con l’elezione di Sarkozy in Francia. Inoltre, è assai improbabile che Brown riveda la decisone presa da Blair di sostituire il sistema missilistico nucleare Trident con dei nuovi vettori, a conferma dello status del Regno Unito di potenza nucleare nel club dei paesi che dispongono della “bomba”.
Per quanto riguarda il capo del partito Conservatore, David Cameron, i risultati delle ultime elezioni locali sono un buon segno, ma se si fosse trattato delle elezioni politiche non sarebbero state sufficienti a garantirgli una maggioranza parlamentare. Giocano contro, infatti, il sistema elettorale uninominale maggioritario e la difficoltà nel conquistare voti e seggi nel Nord del paese, per non parlare poi della Scozia. La sua posizione ancora poco chiara nei confronti degli Stati Uniti è dovuta soprattutto allo stretto rapporto di George W. Bush con Blair e dalla impopolarità della guerra in Iraq. Se Cameron vuole diventare Primo ministro, considerando che la Gran Bretagna non può prendere le distanze allo stesso tempo da Europa e Stati Uniti, dovrà cercare di costruire un forte rapporto con il nuovo presidente americano oppure modificare la propria posizione euroscettica, cosa possibile visto lo spostamento a destra di Francia e Germania.
Ma che fine farà Tony Blair? Il Financial Times ipotizza un ruolo “esecutivo” di primo piano per il prossimo ex-Primo ministro. A giugno Blair parteciperà a un incontro del Consiglio Europeo, il suo ultimo impegno internazionale, che convocherà una Conferenza inter-governativa chiamata a scrivere un nuovo documento che faccia risorgere alcuni aspetti del defunto trattato costituzionale. Tra le novità ci sarebbe anche l’istituzione di una presidenza fissa del Consiglio in sostituzione della presidenza a rotazione. Secondo voci di corridoio raccolte dal giornale londinese, nella Germania di Angela Merkel e nella Francia di Nicolas Sarkozy, si vedrebbe bene un Tony Blair come primo presidente del Consiglio dell’Unione Europea. Sarebbe davvero ironico se un ex primo ministro britannico laburista che molti europeisti vedono come fumo negli occhi (negli anni ’80 proponeva di far uscire il Regno Unito dall’UE) diventasse il primo presidente del Consiglio europeo con il favore dei conservatori. Ma forse sarebbe davvero troppo ridurre Tony Blair ad essere un laburista.

mercoledì 9 maggio 2007

Come cambieranno i rapporti Usa-Francia (l'Occidentale)

L’elezione di Nicolas Sarkozy a Presidente della Repubblica francese rilancia le possibilità di riforma dell’Unione Europea, apre nuovi scenari possibili verso il Grande Medio Oriente e supera la rottura transatlantica dopo la guerra in Irak. Non appena avuto la notizia della sua elezione il Presidente Sarkozy recatosi nella “Salle Gaveau” a Parigi ha dichiarato alcuni punti della sua politica estera. Innanzitutto ha affermato che la Francia tornerà ad una politica estera attiva e che questa attività sarà basata su “i valori universali di tolleranza, libertà, democrazia e umanesimo”. Per Le Figaro, Sarkozy cercherà di coinvolgere maggiormente il Parlamento nella definizione della politica estera ridefinendo la nozione di politica estera come “dominio riservato” della Presidenza della Repubblica e che il suo predecessore Jacques Chirac ha molte volte utilizzato creando lo stile di una politica estera “personale”. Inoltre, sembra già chiaro che vi sarà un riavvicinamento francese ad Israele e un atteggiamento di fermezza verso le ambizioni nucleari iraniane.
Data la non scontata vittoria nelle ormai prossime elezioni politiche, Sarkozy dovrà necessariamente porre delle priorità nelle sue iniziative di politica estera. Il Consiglio Europeo di giugno avrà il compito di convocare una conferenza intergovernativa da tenersi entro la fine dell’anno con il preciso compito di formulare un nuovo trattato che preveda la fine della presidenza a rotazione e quindi l’introduzione di una presidenza fissa, un responsabile dell’attività diplomatica dell’Unione e l’instaurazione di nuove formule di cooperazione rafforzata. Secondo il Financial Times, nell’imminenza del passaggio di consegne a Downing Street tra Tony Blair e Gordon Brown, l’incontro del prossimo giugno metterà in luce quali possibili convergenze esistono concretamente tra le due sponde della Manica. Tony Blair ha già fatto sapere che vorrebbe porre la propria firma sul trattato ma Gordon Brown e il suo entourage, non avendo ancora chiarito la loro posizione, sembrano preoccupati da posizioni eccessivamente vincolanti.
La questione dello sconto britannico e della nuova quota da assegnare alla Politica Agricola Comune (e ai vantaggi per gli agricoltori francesi) nel bilancio comunitario saranno probabilmente al centro della discussione dopo che lo scontro Blair-Chirac di qualche Consiglio Europeo fa aveva rimandato la questione a data da destinarsi. La proposta Sarkozy di un “mini-Trattato” sembra possa essere apprezzata da Londra e dalla presidenza di turno tedesca di Angela Merkel ansiosa di mostrare progressi e significativi risultati. Molto interessante è l’intreccio tra un rilancio della proposta di una “Unione del Mediterraneo” e il rifiuto del nuovo presidente francese ad un allargamento alla Turchia. La convergenza delle opinioni con il Cancelliere tedesco Angela Merkel, anch’essa contraria ad un allargamento alla Turchia ma disposta ad una partnership privilegiata, si articola con la proposta di Sarkozy di un’Unione mediterranea in cui l’interesse francese è preminente. Le passate iniziative Euro Mediterranee finora hanno avuto scarso successo per la mancanza d’interesse politico.
Spostare lo sguardo sul “cortile di casa” europeo come possibilità concreta di sviluppo della impalpabile politica estera europea è un fatto positivo. Sarà necessario verificare la fattibilità di un tale progetto e se la Turchia si sentirà soddisfatta di una soluzione di questo genere oppure segnerà un insanabile punto di rottura con l’Europa. E’chiaro che l’Italia, posta in mezzo al Mediterraneo, non può stare alla finestra e ha tutto l’interesse a espandere la propria influenza in questo settore. Infine il rapporto transatlantico. Nicolas Sarkozy nei mesi scorsi ha fatto capire di essere favorevole a un ritiro del contingente francese dall’Afghanistan e alla definizione di un calendario per il ritiro delle truppe americane dall'Iraq. Di sicuro non sembrano proposte che possano fare felice l’amministrazione Bush.
Secondo Christopher Chivvis, editorialista dell’International Herald Tribune, Nicolas Sarkozy è sì filo-americano, ma non in politica estera. Secondo Chivvis l’americanismo del nuovo presidente si riscontra soprattutto “in questioni di economia, società e in modo minore cultura”. L’attuazione del Protocollo di Kyoto, scetticismo circa l’installazione di sistemi anti-missile in Polonia e Repubblica Ceca, il no all’allargamento alla Turchia, il porre limiti di tempo alla presenza americana in Iraq e a quella francese in Afghanistan non sono senz’altro segni di condivisione della politica estera americana. Per Chivvis la posizione di politica estera di Sarkozy riflette soprattutto la difficoltà di attuare quelle politiche di riforma economica in Francia e di dovere far fronte al crescente peso dei 5 milioni di musulmani francesi. La variazione delle aspettative tra le due sponde dell’Atlantico dipendono dal successo dell’attuazione di queste riforme “lacrime e sangue”, chiave di lettura per comprendere una rinnovata fiducia nei rapporti con gli Stati Uniti.
E’ evidente che l’elezione di Sarkozy in Francia ha generato molte aspettative. Come ha scritto Tim Hames sul Times di Londra, Sarkozy “deve far incontrare questa nazione incredibilmente ostinata (la Francia) con la realtà di un’economia gobalizzata che non dà spazio alla settimana da 35 ore”. In effetti , scrive Hames, Sarkozy è “l’ultima spiaggia per la Francia”.