venerdì 14 settembre 2007

La guerra contro l'Iran è già iniziata (l'Occidentale)

La ragione principale dell’audizione dei giorni scorsi davanti al Congresso americano del generale Petraeus e dell’ambasciatore Crocker è stato quella di presentare i risultati del “surge”, ossia della strategia iniziata lo scorso giugno e consistente nell’aumento del numero di soldati in alcune aree dell’Iraq, come Baghdad e la provincia di al-Anbar, particolarmente interessate da continui atti di violenza ed un elevato numero di perdite di vite umane tra militari e civili.
Nella presentazione offerta dal più alto capo militare e dal più importante rappresentante diplomatico degli Stati Uniti in Iraq però, è emerso come l’Iran, con la sua attiva interferenza negli affari iracheni, sia diventato senza ombra di dubbio la preoccupazione più immediata non solo per i comandanti militari ma anche per i politici di Washington, siano essi nell’amministrazione Bush o nei corridoi del Campidoglio.
Petraeus ha spiegato infatti come in Iraq “negli ultimi sei mesi l’esercito americano abbia colpito le milizie estremiste sciite, mettendo agli arresti un buon numero di capi e guerriglieri, oltre al vice comandante del Dipartimento 2800 del gruppo libanese Hezbollah, un’organizzazione creata per sostenere l’addestramento, l’armamento, il finanziamento delle milizie e, in alcuni casi, la direzione della milizia degli estremisti da parte del Quds, parte integrante della Guardia Repubblicana iraniana. Questi elementi hanno assassinato e rapito membri del governo iracheno - ha precisato il generale -, ucciso e ferito soldati americani con l’utilizzo di congegni esplosivi avanzati provenienti dall’Iran oltre ad avere lanciato attacchi indiscriminati contro civili utilizzando razzi nella Zona Internazionale e altrove”. In conclusione, Petraeus ha sottolineato come sia la Coalizione sia la leadership irachena abbiano ormai chiaro che “l’Iran, utilizzando il Quds, intende trasformare i Gruppi speciali iracheni (le milizie sciite) in una forza simile ad Hezbollah al fine di servire i propri interessi e combattere una guerra per interposta persona contro lo stato iracheno e le forze della Coalizione in Iraq”.
L’ambasciatore Crocker nel suo intervento ha aggiunto che “l’Iran sta giocando un ruolo deleterio in Iraq. Mentre da una parte dichiara il proprio appoggio all’Iraq nel processo di transizione, dall’altra invece l’Iran lo ha attivamente minato dotando i nemici dello stato iracheno di capacità letali. Agendo in questo modo il governo iraniano sembra ignorare i rischi che un Iraq instabile comportano per i propri interessi”. Parlando degli effetti di un possibile ritiro prematuro delle truppe americane dall’Iraq, l’ambasciatore ha illustrato uno scenario che vede l’Iran come vincitore “attraverso un consolidamento della propria influenza sulle risorse irachene e plausibilmente sullo stesso territorio iracheno. Il presidente iraniano ha già annunciato che l’Iran riempirà, se dovesse esserci, ogni vuoto di potere in Iraq”.
A giudicare dall’impressionante dispiegamento degli ultimi mesi delle forze navali americane nel Golfo Persico, e dalla raffica di nuove nomine ai vertici militari della regione fatta dall’amministrazione, in particolare dell’ammiraglio Fallon al Centcom, il Comando Centrale americano che si occupa della zona del Medio Oriente, sembra che la pressione militare contro l’Iran sia ormai al punto più alto. Nelle ultime settimane le voci diffuse da ambienti del Pentagono di piani d’attacco già pronti che avrebbero come obiettivo l’intera macchina organizzativa dello stato iraniano, con migliaia di bersagli da annichilire per impedire ogni possibile rappresaglia, sono indicativi di una guerra psicologica in fase avanzata. L’attacco non si limiterebbe quindi a rendere inservibili i siti nucleari, da anni oggetto della controversia tra Iran e comunità internazionale, ma a trasformare l’Iran in uno “stato fallito”.
La vulnerabilità di Teheran è elevata soprattutto nel campo energetico. Infatti, nonostante l’Iran sia uno dei primi tre produttori di greggio al mondo, è noto come il paese dipenda dalle importazioni straniere di prodotti petroliferi raffinati, disponendo di una sola raffineria che non riesce nemmeno a coprire l’intero fabbisogno nazionale. Il problema per il dipartimento della Difesa americano è comprendere quale potrebbe essere la risposta militare dell’Iran verso la flotta nel Golfo Persico o verso le truppe americane già operanti nel teatro iracheno. Per il dipartimento di Stato invece il problema è costruire un consenso internazionale sull’intervento. Valutare e prevenire le possibili reazioni regionali e globali di un attacco all’Iran.
Per fare questo manca un chiaro ed eclatante casus belli che giustifichi l’amministrazione Bush ad agire. Sembra che la nefasta esperienza del 2003 dovuta alle false premesse della guerra in Iraq abbia insegnato qualcosa. Ma la tensione rimane altissima e una qualsiasi provocazione diretta dell’Iran potrebbe far precipitare la situazione. Il rapimento dei soldati britannici la scorsa primavera infatti poteva rappresentare proprio questo, ma la richiesta dell’allora primo ministro Blair al presidente Bush di tenere un profilo basso per evitare di esacerbare la crisi con Teheran molto probabilmente evitò lo scoppio di aperte ostilità.
I paesi europei coinvolti nelle trattative sui progetti nucleari iraniani come Francia, Germania e Gran Bretagna si sono dette a favore di maggiori sanzioni contro l’Iran, ma contro ogni possibilità d’intervento armato. La Russia, storicamente interessata all’Iran dai tempi del “Grande Gioco” contro l’Impero britannico, attraverso il suo nuovo attivismo militare mostrerebbe forte inquietudine nei confronti di un intervento degli Stati Uniti che destabilizzasse l’Iran in modo non controllabile e senza il consenso preventivo russo. Anche la Cina si opporrebbe ad uno scenario in cui l’Iran subisse un collasso interno con ripercussioni regionali e che necessariamente la coinvolgerebbe.
La stampa internazionale intanto ha riportato come in Iran negli ultimi mesi il regime degli ayatollah abbia cominciato ad applicare delle misure ancora più repressive nei confronti della popolazione, costretta perciò a sottostare alla morale intransigente e ai metodi di controllo poliziesco dei pasdaran o guardie della rivoluzione, e preparando così l’Iran allo scontro. Ogni critica fatta in pubblico al regime viene punito. Anche nel privato la gente ha paura della delazione del vicino. A cambiare le carte in tavola potrebbe essere la nuova ascesa del leader iraniano più pragmatico Akbar Hashemi Rafsanjani, recentemente diventato presidente dell’Assemblea degli Esperti della Repubblica islamica, organo la cui funzione è quella di eleggere e controllare il Supremo Leader. Questa nuova carica metterebbe l’ex presidente dell’Iran in una posizione di potere in grado di contrastare il Supremo Leader grande ayatollah Ali Khamenei.
Se si può essere scettici sulla possibilità di un spontaneo cambiamento interno in Iran (Rafsanjani è pur sempre un islamista radicale), non ci possono essere dubbi sulla fortissima pressione americana. Questa volta lo scopo degli americani non è esportare la democrazia, ma è difendere il fragile ed incerto destino dello stato iracheno e porsi nuovamente in una posizione di forza nella politica regionale e internazionale del Medio Oriente. Tuttavia un possibile attacco massiccio contro l’Iran è oggi fonte di troppe incognite per potere essere realisticamente contemplata. Il rischio di un conflitto che interessi le maggiori potenze globali è troppo elevato.
La domanda che allora bisogna porre è se esiste un modo di fermare le ingerenze iraniane in Iraq senza incorrere nel rischio di fare esplodere un conflitto di vasta scala con il coinvolgimento delle grandi potenze che incrinerebbe l’attuale ordine mondiale. Se gli ayatollah non cedono, tra breve gli Stati Uniti d’America, la potenza egemone che questo ordine mondiale l’ha costruito, dovranno dare concretamente risposta a questo quesito.