venerdì 28 dicembre 2007

La morte di Benazir Bhutto e il futuro del Pakistan.

L’assassinio di Benazir Bhutto, avvenuto il 27 dicembre a Rawalpindi, pone seri interrogativi sul futuro di uno stato che è anche una potenza nucleare: il Pakistan.
Benazir Bhutto, che per due volte ha ricoperto la carica di primo ministro, è stata uccisa a pochi metri da dove si consumò nel 1951 un altro omicidio politico: quello del primo capo del governo pachistano, Liaqat Ali Khan.
La famiglia di Benazir Bhutto del resto non è nuova a vedere propri membri uccisi per motivi politici. Il padre Zulfiqar Ali Bhutto, anch’egli primo ministro, fu, infatti, impiccato in seguito ad un colpo di stato militare nel 1979.
La morte della Bhutto, annunciata lo scorso ottobre da un attentato al quale lei sfuggì miracolosamente ma che uccise 139 persone, apre scenari di forte instabilità non solo per il Pakistan ma per l’intera regione.

E’ importante comprendere perciò chi sono i principali sospettati dell’assassinio, la precaria posizione del presidente Musharaf e, infine, le opzioni per l’Occidente.

Secondo Jeremy Page, inviato del Times nella regione, i principali sospetti ricadono sui militanti islamisti, pachistani e stranieri, che vedevano nel ex-primo ministro Bhutto “un’eretica occidentale e una marionetta americana”.
C’è poi da valutare il possibile ruolo svolto dall’ISI, o Inter-Service Intelligence, i servizi segreti pachistani, che dagli anni ’70 hanno stabilito stretti rapporti con gli islamisti.
Alcuni suoi membri, infatti, durante la lotta contro i sovietici in Afghanistan, finanziata dagli Stati Uniti, sono diventati parte delle frange più radicalizzate e fondamentaliste del paese, naturalmente opposte alle posizioni più laiche rappresentate da Benazir Bhutto.

All’inizio di dicembre, poi, due “signori della guerra” delle zone tribali hanno minacciato di morte l’ex primo ministro. Uno di loro si chiama Baitullah Mehsud, un capo dei militanti fondamentalisti del Waziristan del Sud, legato ad Al Qaeda; l’altro è Haji Omar, leader dei talebani pachistani, anch’egli del Waziristan del Sud e reduce della lotta contro i sovietici in Afghanistan, avendo combattuto con i Mujahidin.

Da non sottovalutare, poi, il ruolo dell’Arabia Saudita, culla del wahabismo e, perciò, opposto ad una visione della società troppo occidentale. Inoltre è risaputo che Rihad sostiene un altro ex-primo ministro, Nawaz Sharif, anch’egli recentemente scampato ad un attentato, deposto nel 1999 da un colpo di stato del Generale Musharaf.

Proprio il Generale Musharaf, oltre ad essere indicato dai membri del partito della Bhutto, il partito del popolo pachistano, o PPP, come vero mandante dell’omicidio, è comunque aspramente criticato per non avere adeguatamente protetto la sicurezza personale di Benazir Bhutto.
Cosa che indica, all’interno come all’esterno del paese, che, o Musharaf è compiacente con l’assassinio (da molti analisti ritenuto come improbabile) oppure che non abbia quel così forte controllo sull’esercito, vero fondamento del suo potere.

Mentre è ancora incerto se le prossime elezioni dell’ 8 gennaio si terranno regolarmente, oppure se verranno rinviate assieme all’introduzione della legge marziale, è evidente che il destino di Musharaf dipende da ciò che avverrà tra i ranghi dell’esercito e se gli Stati Uniti punteranno ancora su di lui.

Secondo quanto riportato da FoxNews, il presidente Musharaf ha recentemente lasciato la carica di capo dell’esercito al Gen. Ashfaq Kiyani, ex capo dell’ISI facendo molta attenzione che questi fosse un continuatore della politica filo-occidentale da lui intrapresa.
Per FoxNews, alti funzionari del Dipartimento di Stato e del Pentagono confermano che nelle ultime settimane c’è stata un’ “aperta discussione” con il Gen. Kiyani, confermando così che l’Amministrazione Bush ha già pronto qualcuno con cui dialogare nel caso il presidente Musharaf dovesse, per qualunque motivo, lasciare il potere.
Le ragioni dell’appoggio occidentale al regime del presidente Musharaf possono essere ritrovate in alcune punti fondamentali: la stabilizzazione dell’Afghanistan, il miglioramento dei rapporti tra Pakistan e India e infine la garanzia della condivisione di dati di intelligence vitali contro la lotta al terrorismo islamista.

Tuttavia, la grave carenza di legittimità del regime militare di Musharaf, secondo il disegno anglo-americano che ha permesso il ritorno dall’esilio dell’ex primo ministro pachistano, doveva essere in parte sanato dalla condivisione del potere con la molto popolare Bhutto, in seguito a regolari elezioni.
Da una parte questo insolito binomio doveva essere garanzia per l’Occidente contro l’intransigenza islamista e, dall’altra parte, soluzione che liberava Musharaf dai diktat dei partiti tribali, soprattutto nella zona meridionale del Waziristan, regione pericolosa anche per il numeroso e ben armato esercito di Islamabad.

Ora che il PPP ha perso il proprio leader e che trovare un successore a Benazir Bhutto richiederà molto tempo, data la natura feudale del partito, il rischio di caos e violenze diffuse nel paese per un periodo prolungato è più che reale.

Un vuoto di potere in Pakistan potrebbe generare una tendenza disgregativa dello stato, l’inizio di una guerra civile ed una possibile “talebanizzazione” di molte regioni del Pakistan, come spiega Farzana Shaikh di Chatam House.

In una situazione di crisi come questa le scelte dell’Occidente, soprattutto quelle degli Stati Uniti, incideranno in maniera determinante l’avvenire politico di un paese che in 60 anni dall’ indipendenza ha conosciuto ben pochi periodi di pace.