mercoledì 11 aprile 2007

Isolare l'Iran per stabilizzare il Golfo Persico (l'Occidentale)

La liberazione dei 15 tra marinai e royal marines britannici pone termine alla crisi scaturita dalla cattura compiuta 13 giorni fa dalle guardie rivoluzionarie iraniane, verosimilmente in acque irachene. Questo episodio esemplifica l’atteggiamento del regime iraniano negli ultimi decenni e in particolare mostra cosa gli ayatollah in realtà vogliano: legittimazione. La vicenda dei prigionieri, che è apparsa come pretestuosa fin dall’inizio a causa dell’incertezza sul luogo del presunto sconfinamento inlgese, si è conclusa con il “beau geste” del presidente Ahmadinejad che ha fatto un “dono” al popolo britannico durante la settimana che divide il compleanno del Profeta e le festività pasquali cristiane ed ebraiche. La Gran Bretagna di Tony Blair che, secondo le parole dello Ahmadinejad, si è limitata a promettere che “incidenti” simili non si sarebbero più ripetuti, ringrazia.
Nelle ultime settimane il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva unanimemente condannato l’Iran per la sua mancata collaborazione con l’Agenzia Atomica internazionale nelle ispezioni degli impianti di arricchimento dell’uranio dove perfino la Russia, che rifornisce di carburante nucleare l’Iran, pare che abbia raffreddato i suoi rapporti con Teheran. Il primo ministro Blair in seguito alla cattura del personale britannico è riuscito anche ad organizzare un fronte di condanna abbastanza largo (sebbene piuttosto differenziato) sufficiente ad impensierire i vertici dell’Iran sull’opportunità della continuazione della crisi. Una situazione d’isolamento internazionale rafforzata dalle misure sanzionatorie internazionali di natura economica e finanziaria prese nei mesi scorsi che hanno avuto effetti sensibili all’interno del paese.
Ma quale motivo c’era di catturare 15 prigionieri per poi liberarli senza alcuna contropartita visibile?
Il fatto è che dal 1979 in Iran è in atto una “rivoluzione islamica” che ha la volontà d’imporsi sui propri vicini e d’influenzare in modo rilevante i rapporti della comunità internazionale grazie alla sua posizione sulla più importante “cerniera strategica” del mondo: il Golfo Persico.
La precarietà “originaria” del regime teocratico non dovrebbe essere di grande rilievo in una regione in cui la maggior parte dei governi sono rappresentate da autocrazie di varia natura. La grande differenza sta nel fatto che il regime iraniano attuale pretende di essere il legittimo rappresentante del glorioso popolo persiano organizzato secondo uno delle poche esperienze statuali funzionanti di Islam politico: lo sciismo dell’ayatollah Khomeini. Come la storia della Rivoluzione Francese insegna i regimi rivoluzionari sono afflitti da mania di persecuzione a livello istituzionalizzato e generano reazioni imprevedibili. Nel caso dell’Iran però sembra che i 30 anni passati in questo stato in cui la necessità di sopravvivenza superavano ogni altro possibile interesse, abbiano sviluppato una notevole capacità di calcolo politico e adattamento alla situazione internazionale. La realtà degli assetti di potere interno fanno si che la guida del grande ayatollah Ali Khamenei sia la fonte della strategia di lungo termine mentre il presidente Ahmadinejad non sarebbe altro che la voce della “pancia” dell’opinione pubblica nazionalista e della potente fazione (anche economicamente) dei pasdaran.
Oggi l’Iran si trova messo oggettivamente all’angolo e la sua volontà di acquisire e sviluppare tecnologia nucleare definito come “diritto inalienabile” (ma in realtà frutto delle ambiguità del trattato di non-proliferazione) denota la volontà di resistere ad ogni costo alla comunità internazionale e di sfruttare la sua posizione geopolitica privilegiata per intaccare l’influenza nella regione degli Stati Uniti, il “Grande Satana”. Il coinvolgimento iraniano in Palestina, Libano e Iraq sono però segno che Teheran non resterà a guardare e il suo scopo sarà quello di rafforzare la propria influenza danneggiando quella altrui. Obiettivamente oggi l’Irak è per gli Stati Uniti un fronte troppo ampio e scoperto perché gli iraniani non ne traggano vantaggio.
La “stretta” del Consiglio di Sicurezza e l’arrivo nel Golfo del secondo gruppo navale americano fanno pensare perciò che qualcuno in Iran (i pasdaran?), facendo prigionieri i 15 britannici, avesse scelto di prendersi una sorta di “assicurazione” contro una possibile azione militare alleata. Difficilmente sarebbe stato ipotizzabile un attacco mentre l’Iran tratteneva il personale militare del più stretto alleato degli Stati Uniti, il Regno Unito. Il precedente della lunga prigionia degli ostaggi dell’ambasciata americana facevano temere per una lunga ed estenuante partita negoziale. Ma qualcuno (il grande ayatollah Khamenei) ha deciso che una soluzione di questo genere non era attualmente percorribile e che anzi c’era la possibilità di uscire dall’isolamento mostrando al mondo la propria “umanità” e la propria disponibilità a trattare in cambio del riconoscimento del regime iraniano.
In questo senso è interessante notare l’atteggiamento del re Abdullah dell’Arabia Saudita che non solo ha recentemente ricevuto Ahmadinejad a Riad ma, durante l’incontro della Lega Araba per rilanciare la proposta di pace saudita tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese ha anche trovato il modo di definire “occupazione” la presenza americana in Irak, prendendo le distanze platealmente dagli Stati Uniti. L’interesse saudita di evitare una corsa agli armamenti nucleari nella regione e un possibile conflitto nel quale sarebbe inevitabilmente coinvolto fanno sì che la tradizionale e reciproca diffidenza (se non disprezzo) tra l’Arabia Saudita wahabbita e Iran sciita venga momentaneamente ricomposta in nome della real politik.
L’obiettivo strategico del regime iraniano è ridurre l’influenza degli Stati Uniti nel Golfo Persico nel lungo termine sponsorizzando Hamas, Hezbollah e la guerriglia irachena; consolidare il regime cristallizzando lo staus-quo per quanto riguarda la propria sovranità (vedi disputa sui confini delle acque territoriali con l’Iraq) e venire a patti con chiunque sia in grado di assicurare la propria sopravvivenza nel breve termine fino a quando non si sarà dotata di armi nucleari.
Il protrarsi dell’isolamento e dei suoi effetti, oltre al fatto che gli Stati Uniti sembrano non mollare la presa in Iraq, indica una svolta che al momento sembra più tattica che strategica: cercare di rompere il fronte dell’isolamento, mostrarsi benevoli con l’alleato più importante degli Stati Uniti, la Gran Bretagna e sperare che i paesi più importanti della regione abbiano più paura di un conflitto dell’Iran.
Da questo punto di vista l’atteggiamento sardonico e squisitamente levantino dell’Iran che da una parte blatera e dispensa doni con Ahmadinejad ma poi pensa e agisce con Khamenei possono essere una chiave di lettura per comprendere la dinamica della lotta per il potere in Medio Oriente: ricerca di legittimazione sulla “strada araba” (sebbene con accento Farsi) e dall’altro ricerca di legittimazione internazionale e regionale usando la minaccia d’acquisire il nucleare e, soprattutto, le debolezze altrui.
Il “dono” di Ahmadinejad, su ordine di Khamenei, sono il segno della propria debolezza e che l’Iran è pronto a trattare, sebbene non sia ancora chiaro entro quali termini. L’isolamento sta funzionando e l’Occidente non deve farsi scappare l’opportunità di ricondurre l’Iran, secondo condizioni precise e rigorose, nell’alveo della comunità internazionale.